Home Pharma Cardiopatici, mortalità +50%. “Ecco le vittime collaterali di Covid e burocrazia”

Cardiopatici, mortalità +50%. “Ecco le vittime collaterali di Covid e burocrazia”

Cardiopatici, mortalità +50%. “Ecco le vittime collaterali di Covid e burocrazia”

Giulio Semeraro (Amgen) a True-News: “Farmaci sottoposti a registro di monitoraggio e piani terapeutici hanno limitato l’accesso alle cure in pandemia”

di Francesco Floris

I dati nudi e crudi sono questi: nei mesi di marzo-aprile 2020, rispetto ai mesi precedenti, ci sono stati il meno 72% di interventi alla valvola aortica e il 50% di ricoveri in meno per la cardiologia. Le patologie cardio-cerebrovascolari e in particolare le acuzie sono fra quelle più impattanti in Italia, e non solo, nel senso che comportano il maggior numero di eventi di morte. I ricoveri ogni anno per malattie cardio-cerebrovascolari sono 900mila, i più alti in termini assoluti. Cosa è successo con la pandemia? “Tra gli over 65 la mortalità generale non Covid è aumentata del 50%” spiega Giulio Antonio Semeraro, Responsabile for Regional Value Access and Policy Activities di Amgen, società biotecnologica presente in Italia dal 1990 che opera in diverse aree terapeutiche fra cui oncologia, ematologia, cardiovascolare, nefrologia, malattie osteoarticolari, malattie infiammatorie e nel settore dei biosimilari. Semeraro coordina un team di persone che segue i mercati delle diverse regioni italiane e i dati a sua disposizione mostrano che, oltre all’aumento di mortalità, “il 37% dei malati cardiologici che prendono farmaci salva vita per gestire in particolare lo scompenso cardiaco e la ipercolesterolemia hanno completamente rinunciato a curarsi oppure ridotto la frequenza e i dosaggi, portandoli a livelli inferiori a quelli che avrebbero utilizzato e inoltre il tasso di inserimento in terapia di nuovi pazienti è stato vicino allo zero”. I motivi ormai sono noti e discussi In Italia: chiusura di alcuni reparti per le infezioni oppure timori e paure dei pazienti nel recarsi in ospedale. Qui, però, c’è un nodo cruciale: perché dovevano recarsi in ospedale per farsi prescrivere un farmaco che magari è sul mercato già da dieci anni? “Lo sapevamo ma in questi drammatici mesi abbiamo scoperto che ci sono farmaci per lo scompenso cardiaco che purtroppo possono essere prescritti solo dallo specialista ospedaliero – spiega Semeraro a True Pharma –. Non dal medico di base ma nemmeno da cardiologo ambulatoriale”. Cosa accade quindi? “Che ogni 2, 3 o 6 mesi i pazienti si recano in ospedale per una prescrizione. E poi una seconda volta devono ritornare per farselo distribuire nella farmacia dell’ospedale o in quella della Asl”. Infine? “Nulla, tornare a casa e somministrarselo da soli visto che per lo più si tratta di farmaci orali o sottocute non certo di endovena”. Un meccanismo che se in tempi normali ha la “sola” controindicazione di intasare le liste d’attesa e creare problemi logistici ai pazienti, nei mesi del Covid ha costretto molti a rinunciare alle cure del tutto o parzialmente. Oppure a continuare a curarsi a proprio rischio e pericolo, caricandosi sulle spalle il rischio di farsi contagiare dal virus dentro le strutture prese d’assalto. Per quale motivo accade? Perché molti di questi farmaci sono sottoposti a registro di monitoraggio e piani terapeutici. “Sono nati con lo scopo di vedere se nei 2-3 anni dopo il lancio del farmaco la sicurezza e l’efficacia sono garantite – spiega Giulio Semeraro – ma una volta che si tratta di prodotti sul mercato da più anni non servono più a nulla e infatti c’era una legge, inapplicata, che obbligava Aifa a rimuovere il piano terapuetico dopo tre anni”. “Oggi – continua – sono solo delle barriere burocratiche in ingresso e far sì che un persona magari di una certa età debba andare in ospedale una volta per la prescrizione e una volta per il ritiro della confezione è assurdo”. Soluzione? Secondo il manager di Amgen almeno due. Da una parte la “semplificazione dei registri di monitoraggio per alcuni farmaci la totale eliminazione dei piani terapeutici per altri”. Ma soprattutto l’investimento da parte delle regioni in modalità alternative di distribuzione, puntando sulla cosiddetta DPCdistribuzione per nome e per conto. Esiste da 15 anni e viene applicata in genere nelle regioni dove gli ospedali non sono diffusi sul territorio. Nei fatti significa che la distribuzione avviene attraverso le farmacie private più vicine a casa che vengono rimborsate dal servizio sanitario. Tutte le regioni hanno una lista di quali farmaci ospedalieri possono essere distribuiti in DPC. “Queste liste dovrebbero essere aggiornate e inseriti molti più farmaci, soprattutto quelli di facile somministrazione” dice Semeraro. Mentre invece “molte regioni tendono ad usare pochissimo la DPC per una serie di motivi”. Tra i principali certamente il fatto che alcuni Ssr hanno una tradizione una storia impostata sulla cosiddetta “distribuzione diretta” attraverso le farmacie delle Asl. Il motivo principale è però economico: se utilizzi le farmacie private la Regione deve pagare per la distribuzione una tantum per ogni confezione, tendenzialmente dai 4 fino ai 9 euro. Quindi al costo del farmaco va aggiunta questa cifra legata al “servizio”. “È comprensibile il timore legato alla spesa – chiude Giulio Semeraro – ma non si capisce che questa cifra pagata alle farmacie per la distribuzione avrebbe un impatto in termini di risparmio su ambulatori e ospedali, eliminando quote importanti delle liste d’attesa, alleggerendo la pressione sugli ospedali e, nel caso specifico di quest’anno, avrebbe evitato i casi di rinuncia alla cura che hanno comportato anche quell’aumento di mortalità”.